PRESENZA

Abbiamo fatto l’occhiolino ad Annamaria Testa, parlando di donne, comunicazione, saggistica e leggendo quel che nel mondo di oggi si chiama “accelerazioni continua, una maratona che ci spinge accanto agli altri, scrive la nota consulente in un’intervista pubblicata in uno di quei giornali “da donne”. Anzi, per alcuni – da donnette.

Si, perché esistono letture e letture, secondo alcuni. Alcune degne di rispetto, altre no.

Sappiamo, che il rispetto non va di pari passo con le letture predilette ma dovrebbe esistere a prescindere.

A questo proposito ricordiamo giusto un po’ di episodi e ve li snoccioliamo tutti: uno dietro l’altro, così come si fa scivolare lo zucchero nel caffè del mattino, o come si modera la fiamma per trattenere la vivacità del bollore d’acqua che circonda un uovo sodo – come l’acqua per gli elefanti – o come si dettaglia la furia del coltello che sminuzza una carota. 

Queste letture sono la conquista di anni e anni di non letture, soprattutto per il genere femminile. Anni in cui le donne, non leggevano. Non sapevano. Era meglio non sapessero.  Era meglio che non si ponessero qualcosa da porsi. Poi, hanno iniziato a leggere (e noi ad acquisire il dono della sintesi della sintesi e della sintassi della sintesi di anni e anni e secoli di storia). Quando iniziarono a leggere, fu un problema. Per alcuni, è ancora un problema. Che le donne leggano.  Davvero! Se fate silenzio e ascoltate, udite questi sussurri, quasi impercettibili all’orecchio. Dicono…

  • Non voglio che leggi“, a una signora ormai anziana, che ricorda i tempi lontani in cui da giovane le era stato proibito di studiare.
  • Ma l’hai letto in quei giornaletti?” a una ventenne, intenta a riferire un riferito dalla rivista.
  • Continua a leggere, io a cosa ti servo se hai da leggere?” una frase intrisa di proiezione, e che in realtà significa “non mi servi” (va ascoltata invertendo il soggetto dall’oggetto, se detta da una persona che non ci vuole bene).
  • Come mai leggi queste cose… sei una persona inquieta“, detto a una ragazza curiosa a cui piace leggere.

Sono frasi dure, cattive, razziste e prive di intelligenza emotiva, uno dei capisaldi delle relazioni umane, soprattutto in una modernità che vuole proprio l’intelligenza emotiva ai primi posti come capacità di stare tra le persone, nelle aziende, in famiglia.

Insomma, in questo “giornaletto” (in effetti è leggero perché il giornaletto usa carta riciclata per non incidere troppo sull’ambiente) abbiamo letto ciò che avevamo abbozzato qui, e che vorremmo approfondire ora.

Le ricerche sulla modernità dell’oggi ci dicono che c’è sempre qualcosa di nuovo: una nuova canzone, un nuovo film, un nuovo articolo, un nuovo mantra, un nuovo libro, un nuovo fare, essere, capire, concetto, musica, vai vai vai… “via, via …“.

Stare.

C’è necessità di stare. Si, perché il continuo andare ci obbliga, come già diceva Lamberto Maffei nel suo trattato “Elogio della ribellione” a fare i conti con accelerazioni e ansie molto tecniche e da cervello, o “da maratona” aggiungerebbe qualche autore.

Parliamo quindi di stare nell’attesa. Di attendere. Che è diverso dall’aspettare.

Ciò che oggi è diventata, per molti, un’ansia.

Perché siamo troppo abituati ad andare, fare, sbrogliare, ricominciare, rivedere, divorare, di nuovo, ancora: perché?

 

Il mondo va veloce “e io voglio scendere“, aggiungerebbe Mafalda.

 

Aveva ragione. Spettinata e brontolona, Mafalda sapeva che nello “stare dell’attesa” c’è il bello.

Non chiamiamolo ozio. L’ozio è la non progettualità nel non fare nulla.

Lo stare è perspicace, bello nell’ascolto del presente: lo stare è attivo.

Non chiamiamolo “aspettare qualcosa” perché aspettare implica che vi sia, appunto, un’aspettativa. L’attesa è più mite, nell’attesa vi è aspirazione, ma non aspettativa.

E’ un qualcosa da richiamare, da rivivere, come quando ci si prepara per un evento osservando ogni dettaglio.

Lo stare implica una visione aperta e consapevole, e in questa ultima parola ci soffermiamo.

Abbiamo ascoltato nei giorni scorsi un’intervista fatta a Biagio Antonacci, riconosciuto immediatamente alla prima sillaba, tanta è la potenza del suo timbro vocale, che pur piacendo o meno, scalda il cuore. 

Biagio parlava di uno dei suoi primi successi: “Liberatemi”, esploso in una MTV degli anni 90, e diceva: non userei più quella parola ma userei “consapevole” e sostituirei tutti i “liberatemi, liberatelo” della canzone con “consapevole” – ma questo l’ho capito dopo. 

Ci piace, anche se ormai la canzone è stata pubblicata ed è bella così com’è.

 

“Liberatemi” – “Liberatelo”.

 

E’ una bella canzone. Consapevole.

La ascoltiamo, mentre è ancora mattina.

In realtà è prestissimo, perché in Molecolelab la sveglia frega anche il gallo – che canta dopo.

E’ prestissimo, non ci sono luci accese.

C’è solo il caffè, il succo d’arancia. Lo specchio, un massaggio al viso.

C’è calma. Tutt’attorno calma. Solo il gallo si sveglia, in ritardo rispetto a noi.

Lo sentiamo cantare. 

E’ micidiale, il gallo: puntuale tutte le mattine. Non ne sbaglia una. E’ impavido. 

E poi, non è vero che più galli in un pollaio non vanno bene. Sono modi di dire.

Ci sono altri galli con lui, ma lui canta per primo. Gli altri dopo. Hanno deciso così. 

 

Tornando al leggere, e al “momento rallentato” come lo chiamiamo noi, si possono fare molte cose: canticchiare un ritornello, per esempio, senza passare a quello successivo con l’ansia di finire perché c’è un nuovo ritornello alla radio. No.

Nel passato, ci si trovava tutti insieme a raccontarsi storie mentre fuori imperava la nebbia, il gelo, a tenersi compagnia leggendo lettere scritte a mano e lasciando permeare il cuore di tutte quelle sensazioni, di tutte quelle emozioni: semplici, ma profonde.

C’è bisogno, di un tempo che faccia assaporare il tempo, si direbbe.

Di un tempo che mostri il tempo. Non che lo faccia scappare. C’è bisogno di una pausa. Come in ogni canzone: tempo, pausa, ritmo, strofa, ritornello, tempo, ritmo.

Pausa.