L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNESTO
Non è facile affrontare un tema come quello di oggi: ci abbiamo messo un po’. E ce l’abbiamo messa davvero tutta.
Siamo andati a scomodare, stavolta, perfino Oscar Wilde: uno che la sapeva lunga.
“L’importanza di chiamarsi Ernesto”, disse e scrisse Wilde, o per meglio dire “Earnest” – all’inglese contemporaneo – come piace a noi (perché se non sei social, sei out ? – no, unicamente perché è il titolo originale del romanzo).
Ma questo Ernesto, chi diamine è?
Ernesto, è il figlio dell’idraulico, cioè il marito di quella che ha divorziato: quella là!
Ernesto, è il figlio del figlio del magazziniere che è andato in pensione presto e poi ha perso la testa per la vicina di casa e macomesipossonofarecertecosedicoio.
Ernesto, è quello che, giovanissimo, è andato in giro per il mondo. Mica è rimasto a casa, insomma.
Sempre Ernesto, è quello che è rimasto a casa, ma poteva andare in giro per il mondo: perché è rimasto a casa?
Ernesto, è quello che se fosse rimasto a casa… “come si chiamava“? Ah si, Ernesto!
Ernesto è il padre del marito di quella là.
Ernesto è il figlio della madre della coinquilina che viveva in quella tal strada, prima della curva, capito?
O Ernesto è morto?
Ma chi è Ernesto?
Ernesto, vai a capire te.
Noi Ernesto lo conosciamo.
Anche altri conoscono Ernesto.
Chi è Ernesto?
E’ davvero difficile questo articolo: avevamo cercato di spiegarvelo all’inizio.
L’onorevole Oscar – Wild(e) – ci ha provato, ma noi non possiamo fare altro che abbozzare solamente. In realtà, manco sappiamo da dove cominciare.
Il buon Google ci da una mano mentre cerchiamo di capire come descrivere Ernesto, al meglio:
Ernesto è un amico a cui piace studiare.
Ernesto ha una passione per le caramelle gommose.
Ernesto è un tenore della musica italiana.
Ernesto è un gommista.
Ernesto è un collega, uno di quelli bravi.
Ernesto è un comico.
Ernesto è divertente.
Ma chi è Ernesto?
Siccome – davvero – stavamo tentando di divincolarci dai nostri turbinii mentali tra Earnest ed Ernesto, siamo andati a prenderci un film moderno, così da non scomodare l’epoca vittoriana di questo Wilde che da laggiù già ci vedeva bene fin quassù (o il contrario).
Ci siamo rivisti “The Greatest Showman“.
Ve la spieghiamo così come l’abbiamo sentita perché di meglio non sappiamo proprio fare.
Praticamente, il folle figlio di un sarto si inventa di mettere al mondo spettacoli circensi che includono individui speciali, nel dettaglio: “l’uomo più pesante del mondo”, “la donna con la barba”, “l’uomo lupo” e così via, ovvero tutta gente che a causa di stranezze varie, nell’ 800, venivano relegati ai confini della società e additate come “mostri”.
Un dito puntato contro “l’aberrante persona” e quattro dita riverse verso chi accusava di mostruosità quelle che, per il figlio del sarto (nel frattempo diventato gentiluomo), erano persone uniche e speciali nella loro diversità.
Il nuovo gentleman iniziò ad invitare questi uomini uno ad uno per renderli protagonisti del suo show, sentendosi rispondere da alcuni: “…ma rideranno di me” e prontamente ribattendo: “ridono comunque“.
Non ci dilunghiamo sulla trama del film e sulle difficoltà incontrate dal gentleman per avverare i suoi sogni e così quelli di altri, se pur nascosti: andiamo dritti al punto in cui il figlio del sarto è diventato un gentiluomo.
Ve la diciamo così come ci esce dato che non siamo Oscar Wilde e delle epoche vittoriane, per quel che ne sappiamo, ci è rimasta solo qualche nostalgia del baciamano, così lontano da certe vicende ippiche in cui il sesso maschile non conosce vergogna e a volte manco quello femminile: quell’ uomo sarà sempre il figlio del sarto.
Per alcuni questa sarà una maledizione.
Per altri, una benedizione.
E’ tutto molto semplice, come Ernesto.